L’omelia di Mons. Brambilla al funerale di don Matteo Balzano

Scritto il 10/07/2025
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Il testo integrale dell’omelia pronunciata da mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara, durante il funerale del giovane sacerdote tragicamente scomparso il 5 luglio.

Di seguito, il testo integrale dell’omelia pronunciata da Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara, durante il funerale a Cannobio (Vb) di don Matteo Balzano, giovane sacerdote tragicamente scomparso sabato 5 luglio.

In questi giorni, nei quali siamo rimasti senza parole, sgomenti, trafitti dalla notizia inimmaginabile e incomprensibile della morte traumatica di don Matteo Balzano, mi hanno colpito due fatti. Il primo è la grande solidarietà di fronte a questa notizia che ha avuto una risonanza nazionale e, addirittura, internazionale, con le tantissime persone, moltissimi sacerdoti e laici, che hanno scritto manifestando la loro vicinanza o a me personalmente o attraverso i miei collaboratori. Ho notato che, anzitutto, una circostanza così tragica ha fatto riscoprire ciò che è vero, profondamente vero, nella nostra vita ed è il legame profondo che ci lega nel Signore Gesù. Il secondo fatto che mi ha colpito è quando sono venuto a visitare la salma di don Matteo, domenica pomeriggio: il clima, la presenza, la partecipazione della comunità cristiana, della città di Cannobio e della valle Cannobina. Sono rimasto impressionato dal dolore inconsolabile dei giovani, quegli stessi che oggi sono qui davanti. Mi sono soffermato con loro e poi anche con le numerose persone presenti, sorpreso persino dal composto picchetto degli alpini. Ho avvertito davvero una partecipazione forte, forte, forte.

Ora, cosa posso dire? In occasioni drammatiche come quella che stiamo vivendo sarebbe meglio tacere, o forse le parole andrebbero quasi sussurrate, dette con grande pudore. Non ho voluto scrivere l’omelia per non correre il rischio di essere retorico o artificioso, ma vi lascio tre riflessioni che sono nate in questi giorni nel mio cuore straziato e sono tre domande che mi hanno interrogato.

  1. La prima domanda: che cosa dice al vescovo, alla famiglia di don Matteo e a tutti noi sacerdoti, soprattutto ai sacerdoti più giovani, una morte simile? Vi invito a prestare attenzione alla liturgia ambrosiana che propone tre brani evangelici, due tratti dalla Passione (Lc 22,7-20.24-30; Mt 27,45-52) e il terzo che narra l’incontro con Gesù risorto che dona lo Spirito e dà il mandato agli apostoli (Gv 20,19 -23). È come se anche noi dovessimo camminare al seguito di Gesù nel suo cammino pasquale di morte e risurrezione.

La prima pagina contiene due riferimenti che forse ci aiutano a balbettare non una risposta, ma a raccogliere una piccola indicazione.

“Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua». Gli chiesero: «Dove vuoi che prepariamo?». Ed egli rispose loro: «Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua»”.(Lc 22, 7-10)

Di solito erano le donne che portavano la brocca, mentre qui è un uomo che indica il luogo preciso del cenacolo. Ecco allora che tutti voi che siete qui presenti dovrete aiutare il vescovo, i familiari dei sacerdoti, i sacerdoti e in particolare quelli più giovani a non perdere la bussola che indica il senso più profondo della missione del prete: preparare la Pasqua, mangiare la Pasqua. La preparazione, l’imbandire la Pasqua è il senso di tutta la nostra missione, che significa portare la vita di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni ragazzo, adolescente, giovane, a sapere che il momento più difficile, ma anche più bello della vita è passare attraverso la Pasqua, che vuol dire passaggio.
Quando la vita bussa alla nostra porta e ci mette in difficoltà, è importante comprendere che c’è qualcosa di più grande e che ci sprona ad andare avanti, ed è il Signore Gesù che muore con noi, ci accompagna e ci fa risorgere con Lui. Mi rivolgo soprattutto ai sacerdoti della nostra Diocesi che numerosissimi hanno sostato e fatto visita in questi giorni: non perdiamo mai il senso di questa realtà che per noi è la più importante. Da ciò derivano almeno due conseguenze.
La prima: i nostri linguaggi, i nostri modi di parlare debbono essere edificanti e mettere in luce la comunione che ci tiene insieme; ci sono le inevitabili differenze e visioni, ma queste non devono mai oscurare lo sguardo sintetico per cui noi siamo chiamati a preparare per la nostra gente la Pasqua del Signore. Non lo dobbiamo mai dimenticare e dovremmo sempre verificare se i nostri linguaggi e i nostri gesti generano comunione, così come le nostre richieste ed esigenze. Perché solo di fronte alla verità della vita e della morte emerge se i nostri linguaggi edificano e se i nostri gesti costruiscono comunione.
La seconda: per quanto la domanda “Che cosa dice la morte di don Matteo a me vescovo, alla famiglia, ai sacerdoti, adulti o giovani?” rimanga lì intatta con tutto il suo peso insopportabile, tuttavia, ci suggerisce almeno che dobbiamo imparare proprio ad ascoltarci, a dirci di più la verità con semplicità, a non nascondere le nostre sofferenze più intime, ad essere aperti in modo solare gli uni agli altri, perché questa è la condizione essenziale per costruire insieme la preparazione alla Pasqua di Gesù. Spero che il Signore alla fine della vita di ciascuno di noi possa dire quanto è riportato nell’ultimo versetto della prima lettura:

“Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me” (Lc 22, 28-29).

  1. La seconda domanda mi è sorta, sedendomi un momento accanto a questo gruppo di ragazzi che era lì vicino all’ingresso dell’oratorio: che cosa dice a voi ragazzi, adolescenti e giovani, una morte come quella di don Matteo? E dopo aver conversato un po’ con loro, mentre alcuni di essi piangevano senza rimedio, ho suggerito loro di scrivere una pagina per farla diventare un tratto dell’omelia. Una ragazza a nome di tutti ora ci legge cosa ha significato per lei, per loro, la presenza di don Matteo.

[Il Vescovo lascia l’ambone ad Alessia, una giovane dell’oratorio di Cannobio]

Caro don Matteo, scrivere questo discorso è stato difficilissimo, perché riassumere in metà pagina tutto quello che abbiamo vissuto insieme per due anni è impossibile, anche se in realtà tu di questo sarai piacevolmente sorpreso da me, perché sai bene quanto parlo…
Sei apparso nelle nostre vite come un arcobaleno dopo una lunga pioggia, perché anche nei nostri momenti più difficili tu riuscivi sempre a strapparci un sorriso, dicendoci qualche cavolata o prendendoci in giro scherzosamente come eri solito fare. Hai ridato vita al nostro oratorio, non solo riportando la gente a vivere l’oratorio, ma anche creando un gruppo animatori solido e unito, valorizzando ogni nostro punto di forza.
La prima volta che ci siamo incontrati è stato due anni fa alla castagnata, e già lì sapevo che saresti diventato il nostro nuovo don, ma per me sei diventato presto un pilastro fondamentale, una persona con cui confidarmi per ogni cosa, anche la più stupida, perché tu per me non eri solo il mio don, il mio confessore o il mio “superiore”, per me eri prima di tutto un amico.
In questo tempo insieme, noi ragazzi abbiamo accumulato un sacco di ricordi bellissimi che meriterebbero tutti di essere raccontati, perché ognuno di essi ci dice la persona che eri. Come nelle serate di gruppo del venerdì, nelle quali cercavi di insegnarci ad avere un pensiero critico tutto nostro parlando di ogni tipo di argomento, dal più serio al più sciocco, e tutti noi eravamo rapiti dai tuoi discorsi, per il modo in cui li raccontavi e da come ci coinvolgevi.
Tu hai sempre creduto in tutti noi e in ogni nostro sogno. Sei riuscito a farci affrontare tante insicurezze e far uscire il meglio di noi. Di te ricorderemo ogni risata, ogni scherzo, ogni giorno insieme, perché con la tua presenza sapevi rendere tutto speciale.
Il nostro rapporto non è finito, si è solo trasformato, perché ora sarai il nostro custode per sempre. Ricordati solo di buttare giù un occhio a noi ogni tanto, che ne abbiamo bisogno…
Con tanto tanto affetto, le tue bertucce dell’oratorio.

[Il Vescovo riprende la parola]

Alla seconda domanda: cosa dice a voi giovani la morte di don Matteo? Avete risposto a modo vostro anche attraverso le magliette che indossate e sulle quali avete di vostro pugno, una per una, scritto la frase: per sempre con te don Matteo. Che cosa rimarrà con voi di Don Matteo? Vi invito a fare un piccolo esercizio per mettere insieme, ciascuno di voi, un piccolo pezzetto per fare un grande puzzle, per ricordarlo colorandolo con tutti i vostri ricordi. Tra qualche tempo tornerò, quando il dolore sarà meno forte, per vedere dal vivo la vostra icona di don Matteo che è rimasta nel vostro cuore e sentire il vostro racconto pieno d’affetto e di gratitudine.
Qualche ragazza mi ha anche fatto una domanda tremenda, come quella che abbiamo ascoltato nella seconda pagina della Parola di Dio tratta dalla passione di Matteo, nel momento in cui dalla croce Gesù alza verso il Padre il suo grido lancinante:

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46)

E anche per questa domanda, quando verrò cercherò di balbettare una risposta, anzi meglio cercherò di leggere con voi il Salmo 22 del giusto perseguitato, che si rivolge a Dio con un’invocazione pressante e accorata. Forse insieme potremo comprendere come il Signore ci starà vicino con il ricordo affettuoso di don Matteo, che ciascuno di voi porta nel cuore e che ci verrà in soccorso nei momenti critici della vita…

  1. E, infine, la terza domanda: che cosa dice questa morte alle famiglie e alla città di Cannobio e della Val Cannobina? E forse un po’ anche alla nostra diocesi, come alle molte parti d’Italia, che oggi hanno lo sguardo rivolto a questa chiesa e a questo feretro?

Lo dico con un’espressione semplice: dobbiamo curare di più l’anima! In tutte le attività che noi compiamo, nelle azioni della vita umana, quando mettiamo al mondo i bambini, quando coltiviamo i loro sogni, quando compriamo le case, quando lavoriamo, quando facciamo tutto ciò che è la vita, dobbiamo domandarci se la nostra cura dell’anima è almeno sufficiente per sostenere il nostro tempo sazio e disperato, un tempo in cui le molte cose che abbiamo e possediamo corrono il rischio di atrofizzare e spegnere i significati dell’esistenza.
È un’affermazione che ho fatto molte volte, anche qui in occasione della festa della Santissima Pietà, a cui sempre ho presenziato, salvo quest’anno a causa di un’indisposizione: le nostre case sono troppo piene di cose, ma povere di significati per vivere. Il racconto che abbiamo ascoltato come terzo vangelo di questa liturgia (Gv 20,19 -23) ci dice che Gesù risorto ci porta la pace, lo shalom, la vita riconciliata dei figli della risurrezione, che cambia il volto delle famiglie e della città. Se non saremo in grado di curare l’anima, cioè di non scambiarci solo cose da avere, risorse materiali, iniziative da fare, ma sostenere la vita nelle relazioni riconciliate, sarà difficile guarire il male di vivere del nostro tempo.
La presenza di don Matteo, il suo contagio, la sua figura bella, tutta questa gente oggi presente in questa tristissima circostanza ci rivela proprio che esiste un legame profondo, senza del quale corriamo il rischio di anemia spirituale. Tutto questo ci aiuta a capire che dobbiamo curare di più l’anima, che significa curare le relazioni, curare la compassione, curare la comprensione dell’altro, lasciare che l’altro, anche se sbaglia, possa ravvedersi. E potrei aggiungere moltissimi altri esempi…
In questi tre giorni non ho detto e scritto una parola, perché ero straziato dal dolore, e mi dicevo che alla gente e ai preti per cui sono vescovo avrei potuto solo sussurrare parole appena appena udibili, solo se venivano da un lungo silenzio, come quello del Sabato Santo. Il terzo giorno sono riuscito a comporre soltanto sette parole, dopo aver benedetto domenica la salma di don Matteo:

Dolce fratello
giovani orfani affranti
pianto infinito

Non so dire se anche il cuore del Vescovo potrà smettere di piangere, ma so che non potrò mai più dimenticare da ora e per sempre don Matteo.