In questi giorni di ferie al paese dei miei genitori sto celebrando la Messa delle 7.30 del mattino, un po’ per fare un atto di carità verso i miei confratelli locali, che di solito devono dirla tutti i giorni dell’anno, ma soprattutto perché mi piace svegliarmi con la luce naturale dell’alba, e muovermi in un momento della giornata in cui il caldo non fa ancora da padrone.
Stamattina all’omelia ho visto i volti delle persone (neppure poche!) radunate in chiesa illuminarsi quando ho detto loro: “Anche voi siete monaci benedettini!”
Perché cos’è, in effetti, un monaco benedettino?
Dobbiamo mettere tra parentesi la nostra idea attuale del monachesimo, di solito clericalizzato: oggi i monaci sono per lo più sacerdoti che svolgono ottimamente funzioni pastorali e liturgiche, oppure, nella variante eremitica dei trappisti e dei certosini, che non cessa di attrarre, persone che hanno scelto una dimensione radicalmente contemplativa, nella solitudine e nel silenzio.
I monaci di Benedetto erano piuttosto uomini che, guidati dal loro desiderio di conversione, vivevano insieme e, alternando la preghiera liturgica ai lavori più disparati, bonificavano il mondo. A loro dobbiamo la fecondità e la bellezza di tanti degli scenari rurali di tutta Europa: si costruivano una casetta in qualche zona impervia e pericolosa (paludi, montagne, foreste infestate dai briganti, ecc.), e da lì iniziavano a ripulire, coltivare, costruire. Il tutto scandito dagli orari della preghiera liturgica: “ora et labora”.
Lungi dall’essere luoghi reclusi e impenetrabili, i monasteri benedettini crescendo divennero centri estremamente vitali di incontro, di scambio, di cultura e di arte (anche culinaria!). I monaci, convinti di poter imprimere attorno a sé l’ordine e la bellezza che trovavano dentro di sé nell’incontro con la Parola, man mano recuperarono non solo gli ambienti naturali, ma anche il sapere, salvando dall’oblio i testi degli autori antichi e sviluppando nuovi saperi. Lavoro informato dalla bellezza, bellezza alimentata dal lavoro.
Lo stesso abito dei benedettini in origine non era altro che l’abito del contadino: una povera tunica scura, con una cintura per metterci gli attrezzi di lavoro. Non erano sacerdoti, come non era stato sacerdote Benedetto: nei monasteri più grandi c’era qualche monaco che aveva anche questa funzione, che però non sarebbe mai stato lo specifico di questa forma di vita.
Perché il nucleo della vocazione benedettina, che la rende perennemente interessante e attraente, è proprio questo: vivere una vita sapienzialmente ordinata, scandita dal ritmo del tempo cosmico e liturgico, per trasporre questo stesso ordine nell’ambiente circostante, e ridargli vita.
E questa non è forse la vocazione propria a ogni cristiano?
Queste persone che, fedelmente, ogni mattina iniziano la giornata con la partecipazione alla Messa seguita dalla recita delle Lodi, per poi andare a ciò a cui le chiamano i loro impegni, così come i tanti ragazzi e ragazze che, negli ultimi dieci anni, hanno accettato la mia proposta di sperimentarsi nella vita comunitaria guidata da una regola, e che intrecciano la condivisione e la preghiera allo studio e al lavoro, e ancora più in generale tutti quelli che prendono sul serio l’impegno della vita quotidiana intelaiandolo sulla preghiera, stanno vivendo, forse senza saperlo, forme attualizzate di monachesimo benedettino: la loro cella è interiore, e vi ritornano ritmicamente con la preghiera disseminata nella giornata, e il loro campo da arare è il pezzetto di mondo di cui sono chiamate a prendersi cura.
Come furono Benedetto e i suoi a salvare l’Europa dal caos e dalla miseria, così, oggi, saranno queste persone che credono nella bellezza, che non separano Dio dalla vita, e che anzi tenendoli insieme rendono divine tutte le cose della vita, a salvare questo nostro mondo atomizzato.
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