Ucraina, piano di pace. Lavazza: “Condizioni pesanti, a rischio il futuro del Paese”

Scritto il 22/11/2025
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Più che “Piano Trump” sembra di essere di fronte al “Piano Putin”. Da Washington arriva al Presidente ucraino Zelensky un ultimatum: accettare, entro il 27 novembre, le condizioni per la pace. Ma si tratta di condizioni capestro, 28 punti che pretendono una resa incondizionata, e umiliante, per l’Ucraina, che da quasi quattro anni resiste coraggiosamente all’invasione dell’armata russa. Kiev dovrebbe cedere una significativa parte delle regioni orientali all’aggressore Putin, smilitarizzandosi, rinunciando per sempre a far parte della Nato; mentre Putin pretende di rientrare nel consesso delle nazioni democratiche, magari tornando a sedersi al G8.
Nel videomessaggio diffuso ieri sera alla nazione, Zelensky ha spiegato che il Paese si trova a un bivio: alzare bandiera bianca “rinunciando alla nostra dignità” o perdere un alleato prezioso, gli Stati Uniti. “L’Ucraina – ha affermato – non deve rivivere il déjà vu del 24 febbraio, quando ci sentivamo soli, quando nessuno poteva fermare la Russia tranne il nostro eroico popolo, che si è eretto come un muro contro l’esercito di Putin”.

(Foto Andrea Lavazza)

Di certo la popolazione è stremata, le vicende militari non sono confortanti, il peso degli anni di guerra si fa sentire nella vita di ogni giorno. Zelensky volge lo sguardo all’Unione europea, che ancora una volta è rimasta spiazzata dal binomio Trump-Putin, pur sapendo che la Russia dell’autocrate può essere davvero una minaccia per l’Europa. Così Merz (Germania), Starmer (Regno Unito) e Macron (Francia) cercano di capire se ci sono spazi di manovra per rivedere i 28 punti. Ne parliamo con Andrea Lavazza, editorialista di “Avvenire”, docente di Filosofia morale all’Università Pegaso, esperto di questioni internazionali.

Un “piano di pace” per l’Ucraina: come nasce, in realtà, quello proposto in questi giorni? Quali i soggetti proponenti?
Per quanto ne sappiamo, il piano dovrebbe essere nato da un dialogo sottotraccia fra Washington e Mosca. Un progetto che a suo modo vorrebbe ricalcare lo “stile” che si è registrato per l’accordo sul conflitto in Medio Oriente: i 28 punti sarebbero stati sostanzialmente concordati con una sola parte in conflitto, la Russia. Zelensky si trova in grande difficoltà. Le condizioni sono pesanti: l’Ucraina dovrebbe cedere molti territori, anche una parte di quelli che l’esercito russo non ha ancora conquistato, con la finzione di una zona demilitarizzata; si pretende poi la forte riduzione delle forze armate ucraine. Tutto ciò metterebbe in una posizione di debolezza questo e i prossimi governi ucraini, con il rischio di veder crescere all’interno del Paese spinte, e formazioni politiche, filorusse.

Il Presidente Zelensky si trova dunque in una situazione, politica e personale, difficilissima…
In effetti mi sembra difficile immaginare un suo futuro politico, anche se occorre riconoscergli il merito di aver guidato la resistenza all’aggressione russa. Se gli Usa insistessero su questo piano di pace metterebbero in seria difficoltà l’Ucraina e il suo Presidente. Del resto, la minaccia di far mancare gli aiuti americani a Kiev lascerebbe un fianco scoperto, indebolendo la posizione dell’Ucraina.

E la voce dell’Ue? L’Europa deve solo pagare i conti di questa guerra?
L’Unione europea ha fatto tantissimo, e non è stato sottolineato abbastanza. Ha fornito aiuti, ha accolto milioni di rifugiati, ha contribuito alla difesa. Semmai bisogna ammettere che non c’è stato sufficiente coraggio nel porre in campo misure più dure verso la Russia. Siamo arrivati a venti pacchetti di sanzioni, mentre da subito occorreva stringere sull’economia, isolando Mosca, colpendone gli interessi. Si è stati timidi sull’utilizzo dei beni russi confiscati: perché l’Europa dovrebbe avere remore nell’incamerare 300 miliardi di beni russi da usare per sostenere l’Ucraina? Bisogna riconoscere che le cautele sono state eccessive, pur sapendo che un’azione politica ed economica nei confronti della Russia avrebbe potuto comportare un prezzo da pagare per gli stessi europei. Ma si trattava, e si tratta, di difendere la pace e la legalità internazionale.

(Foto X/Zelensky)

Si è spesso sottolineato che, dietro la guerra, ci sono anche grossi interessi economici: fanno gola le terre rare, i minerali, il carbone, l’energia dell’Ucraina. Non è vero?
Questo versante non è chiarissimo. L’approccio iniziale di Trump, un po’ predatorio, sembrava plausibile: noi investiamo nella vostra difesa e voi – sembrava questo il discorso – ci ripagate con beni materiali. Oggi, però, di fronte alla situazione creatasi in Ucraina, non si giustificherebbe questo saccheggio. L’Ucraina sarebbe un Paese ulteriormente impoverito, già provato dalla guerra, poi depredato. Con una situazione sociale esplosiva, il Paese da ricostruire, la popolazione alla fame, un ulteriore esodo verso l’estero, senza forze imprenditoriali in grado di investire. È una questione delicata, da tenere in massima considerazione.

Non ultimo: l’Europa è a sua volta in mezzo al guado. Ha sostenuto la resistenza Ucraina, si è sentita, e si sente, minacciata nella sua sicurezza. Il conflitto in Ucraina ha accelerato il riarmo europeo: ma in quale quadro si inserisce la nuova spesa bellica senza una vera politica estera e di sicurezza comune?
Il riarmo europeo, ripreso come reazione all’imperialismo russo, sta procedendo con un aumento delle spese nazionali per rafforzare gli arsenali. Ma appare evidente che manca una strategia politica comune. Anche perché si spendono soldi per armamenti convenzionali: in un eventuale conflitto – augurandoci che non vi si arrivi mai – non servirebbe qualche carro armato in più. Occorrerebbero investimenti costosi, i quali, però, andrebbero contro una tradizione di pace che ha caratterizzato finora il cammino dell’Europa comunitaria. Servirebbe piuttosto un’azione politica e diplomatica, difficile da mettere in atto in una fase in cui i 27 Stati membri mantengono, e intendono mantenere, una forte componente di sovranità nazionale. Difficile convergere verso una politica di difesa e di sicurezza comune. E qui emerge anche il limite istituzionale dell’Ue.

La storia ci dice che in tempi di crisi l’integrazione europea ha fatto grandi passi in avanti…
Certo, sarebbe auspicabile. Ma in realtà siamo di fronte a spinte nazionaliste; diversi governi, anche di grandi Paesi, sono in posizione di debolezza. Per una maggiore integrazione europea i governi avrebbero bisogno di avere i cittadini dalla loro parte, ma non mi sembra proprio questo il momento. E vale anche per l’Italia. Temo che per ora rimarremo in questo impasse.

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