At 15,1-2.22-29; Sal 67 (66); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29 | Il Vangelo di queste domeniche dopo Pasqua ci fa ascoltare il discorso di Gesù nell’ultima cena ai Dodici. Il brano che abbiamo ascoltato riporta il passaggio nel quale Gesù parla di quello che accadrà ai discepoli dopo la sua partenza. E’ rivolto anche a noi, in maniera diretta. Gesù passa dal “voi”, rivolto ai presenti, ma non c’era più Giuda, al “chi”: “Chi mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Gesù lega l’amore all’osservanza del Vangelo la cui conseguenza è diventare dimora del Padre e del Figlio. Una dimora che ci accoglie che neppure la morte cancella, come Gesù disse a Marta qualche giorno prima di fronte a Lazzaro ancora nella tomba: “chi vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv 11, 26). La Parola di Dio – che è del Padre e del Figlio - è la dimora dei credenti: “là dove due o tre si radunano nel mio nome io sono in mezzo a loro”. L’ascolto del Vangelo ci rende dimora di Dio, Chiesa santa di Dio. Alla Chiesa Gesù affida il Vangelo perché sia comunicato al mondo così come Gesù ha fatto sino a quella sera.
Certo, ha appena detto a quei discepoli che li sta per lasciare. Ma non li avrebbe lasciati soli, in balia del mondo, orfani della sua presenza. Il vuoto lasciato sarebbe stato riempito dallo Spirito Santo: “Il Consolatore, lo Spirito Santo v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Lo Spirito del Padre e del Figlio, è il Maestro interiore che “insegna” anche a noi, discepoli dell’ultima ora, ogni cosa e ci “ricorda” il Vangelo, tutto il Vangelo. «Ricordare» il Vangelo con l'aiuto dello Spirito vuol dire ascoltarlo assieme ai fratelli e alle sorelle, amarlo come la parola più cara che ci accompagna, metterlo in pratica e comunicarlo, sempre e dovunque, a tempo e fuori tempo, aggiungerà l’apostolo. Il Vangelo è la parola che cambia, che trasforma, che scalda i cuori, che rende umane le città e il mondo. E la prima parola del Vangelo della Pasqua è “pace”. Ma non come una esortazione morale, un augurio positivo. E’ piuttosto una consegna: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”. “Vi lascio”, qui vuol dire vi dono, vi consegno, vi affido la mia pace.
Subito aggiunge: “Non sia turbato il vostro cuore”. Gesù mette in guardia dalla paura, ch’è figlia dell’incredulità e dell’egocentrismo, come anche da uno spirito rassegnato, infiacchito, indebolito, non certo figlio del Vangelo e della parola che il Signore ci affida. La pace che Gesù ci dona non è quella del mondo, non è la tranquillità del proprio piccolo mondo. La pace sarà legata allo Spirito Santo, a quelle lingue come di fuoco che scenderanno sugli apostoli – mentre saranno ancora in quel piano superiore ma per paura - nel giorno della Pentecoste, che celebreremo tra poche settimane. E’ nella visione del sogno della Pentecoste, ossia nella comunicazione del Vangelo sino ai confini della terra, che chiede ai discepoli persino di rallegrarsi per la sua partenza: “Se mi amaste vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me”.
Non sappiamo se Gesù intendesse descrivere una gerarchia interna al mistero stesso della vita trinitaria. Certamente però sottolinea la sua obbedienza totale al disegno del Padre che ha tanto amato il mondo da inviarlo sulla terra. Qualche versetto prima ha anche detto a quei discepoli impauriti e spaventati che avrebbero fatto cose persino più grandi di lui: “Chiunque crede in me compirà opere più grandi” delle mie. C’è una urgenza che Gesù vuole comunicare ai discepoli di ogni tempo: se restiamo uniti al Padre a lui e allo Spirito Santo, siamo senza alcun dubbio più grandi e più forti del male e della guerra. Potremmo dire, care sorelle e cari fratelli, che questo sogno universale di Dio in questo tempo – segnato da conflitti drammatici e devastanti – è affidato da Dio anche a questa nostra generazione cristiana, con papa Francesco che continua ad esortare alla pace. E’ il Vangelo della speranza di un mondo nuovo: oggi siamo chiamati ad accoglierlo “sperando contro ogni speranza, come l’apostolo scrisse ai Romani (4,18).
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Il commento di Monsignor Vincenzo Paglia
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