2 Corinzi 3,15–4,1.3-6 | Di nuovo Paolo ritorna a parlare del ministero che gli è stato affidato. È ben consapevole di essere stato scelto da Dio per comunicare agli uomini il Vangelo di Gesù Cristo. Non è quindi per sua scelta che ne è diventato ministro, ma perché chiamato dall’Alto. Può perciò rivendicare senza timore alcuno l’autorità del suo annuncio e ricordare la franchezza con la quale egli lo ha fatto senza falsificarne il contenuto e senza attutirne la forza. È vero però che a Corinto c’è chi non pensa con sincerità. Già alla fine del capitolo terzo della lettera, Paolo aveva accennato a coloro che mercanteggiano la Parola di Dio; ora parla addirittura di una possibile falsificazione. Non basta ovviamente appartenere alla Chiesa, o alla comunità, per essere immuni dall’orgoglio, dall’invidia e dalla critica. Tali tristi istinti “velano” lo sguardo sul Vangelo e ne offuscano la comunicazione. Paolo rivendica che la sua predicazione non è passeggera come quella di Mosè ancora segnata dal “velo” della legge. La sua predicazione mostra il volto stesso di Gesù, senza mediazioni, senza veli. Il volto di Gesù svela il volto stesso di Dio. Così Gesù rispose a Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Solo se volgiamo gli occhi verso Gesù potremo comprendere il mistero di Dio e riceverne forza. E Paolo rivendica la sua predicazione sulla centralità di Gesù per la vita della comunità: «Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore» (v. 5). E questo ministero è il servizio a cui l’apostolo è stato chiamato. Per questo si presenta ai corinzi come loro «servo» per amore di Gesù, quel Gesù che gli è apparso glorioso, pieno di luce tanto da accecarlo, sulla via di Damasco.
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Il commento di Monsignor Vincenzo Paglia
Salmo Responsoriale
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