Sir 35,15b-17.20-22a; Sal 34 (33); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14 | L’evangelista Luca riporta la parabola del fariseo e del pubblicano specificandone il motivo. Gesù l’ha pronunciata: “per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”. E’ un’abitudine di Gesù parlare in parabole: attraverso scene della vita ben comprendibili vuole coinvolgere direttamente gli ascoltatori. E’ un modo efficace per aiutare anche noi non solo a capire ma a vivere nel suo Regno. E’ facile che Luca avesse presenti atteggiamenti simili a quelli della parabola all’interno della prima comunità cristiana: credersi migliori degli altri e di conseguenza disprezzarli. Gesù già in Matteo Gesù metteva in guardia: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, e non scorgi la trave che è nel tuo occhio?”(Mt 7,3). Luca insiste: chi vanta se stesso facilmente è impietoso con gli altri. La parabola più che un insegnamento sulla preghiera è sull’agire di Dio: sordo agli orgogliosi e misericordioso per i peccatori. Ne consegue anche un insegnamento su come stare davanti a Dio oltre che davanti agli uomini.
Quel fariseo, entrato nel tempio va diritto all’altare e lì, ritto in piedi, ringrazia Dio per la vita buona che conduce. Si compiace di non essere ladro e adultero; si vanta del digiuno bisettimanale e delle generose offerte che fa. E conclude soddisfatto che non tutti si comportano come lui. Come, ad esempio, quel pubblicano che sta in fondo, a distanza, e senza neppure osare di alzare gli occhi al cielo si batte il petto per le sue colpe che non c’è bisogno di elencare. Ma ecco che Gesù rovescia la scena della parabola. Ha fatto la stessa cosa in quella di Lazzaro, del ricco epulone e del figliol prodigo. Gesù apre nuove visioni dell’esistenza, nuove prospettive di vita, di comportamenti. E la realtà, la storia, si capovolge. In questa parabola il pubblicano che riconosce i suoi peccati viene giustificato – senza peraltro fare penitenze particolari -, mentre il fariseo pieno di sé, resta con se stesso, con il proprio “io”, ma non giustificato. L’io non giustifica. L’autosufficienza non solo impedisce di uscire da se stessi, rende impossibile anche l’ingresso degli altri. Quel fariseo è chiuso: senza pietà sia davanti a Dio sia a quel pubblicano. L’evangelista nota che “pregava tra sé”, come a dire che il suo cuore è chiuso, che la sua preghiera è bloccata all’interno della bolla dell’io. Si racconta, non prega. Al contrario, il pubblicano nella sua umiltà e pochezza sta lontano a mani vuote e chiedere misericordia. La sua preghiera è breve, non ha bisogno di lodarsi. Sente solo il bisogno di perdono: “O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore”. Una preghiera semplice e breve. Ma traversa il cielo e giunge sino a Dio, come ci ricorda il Siracide: «La preghiera dell'umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta” (35,17). Il credente è l’umile che tende la mano al Signore. L’umiltà, potremmo dire, non è semplicemente una virtù, è il modo di porsi davanti a Dio e agli uomini: mendicare amore e salvezza. Confidando nel paradosso che il Vangelo ci suggerisce: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (v. 14). È una grande verità e una grande saggezza: essere umili cercatori di pace senza stancarsi mai perché, come dice il salmista: “Gridano e il Signore li ascolta”(Sl 33,18). E così sia.
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Salmo Responsoriale
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Il commento di Monsignor Vincenzo Paglia
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