“Facciamo festa perché nasce Gesù. Il Natale è questo: lasciar passare attraverso di noi un amore più grande”: è in queste parole di don Romano De Angelis, cappellano all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, il senso del Natale vissuto in un luogo di cura pediatrico, dove si incrociano storie di vita e di sofferenza. La sua testimonianza arriva alla vigilia del Natale e sono parole di speranza.
Don Romano De Angelis (Foto Opbg)
Don Romano, che cosa significa vivere il Natale in un ospedale come il Bambino Gesù, tra famiglie che soffrono insieme ai loro bambini e che si chiedono “perché”?
La cosa più bella che vivo qui è questa: Dio non ci dà un “perché”. Perché se ci fosse una spiegazione, uno potrebbe dire: ho capito, allora è giusto. In realtà il male e la sofferenza non sono giusti. Dio non vuole il male, non vuole la sofferenza. È un po’ come quando un papà o una mamma dicono ai figli: stai attento, non salire lì sopra, sennò ti fai male. Se il figlio disobbedisce, non è che il genitore lo punisce: arriva un male che non si voleva.
Ma il male spesso colpisce anche chi non ha colpa.
Esatto. Il problema è proprio questo: il male non colpisce solo chi lo compie. Se io agisco senza scrupoli, magari inquinando o bruciando sostanze tossiche, quel male ricade su persone innocenti. E allora Dio fa qualcosa di infinitamente più grande: si fa bambino. Prende la nostra carne, una carne piena di contraddizioni, una carne debole. Non ci fa un predicozzo sul peccato originale o sull’origine del male. Dice: io lo prendo su di me.
Che cosa significa, concretamente, questo “prendere su di sé”?
Significa diventare un bambino non “speciale” perché è Dio, ma un bambino come gli altri. Assumere fino in fondo la fragilità umana, fino alla morte, fino alla morte di croce. Ed è proprio quell’atto d’amore che sconfigge la morte e la trasforma in Pasqua.
Come si riflette tutto questo nei volti dei bambini malati?
Qui, davanti a un bambino sofferente che non ha alcuna colpa – né lui né i suoi genitori – io contemplo Gesù che si fa bambino debole, bambino emarginato, per poter offrire a tutti un’esperienza di amore in qualsiasi stagione della vita.
Quando Dio viene ad abitare questa vita piena di contraddizioni, allora diventa possibile la gioia anche in mezzo alle tribolazioni, come dice san Paolo: sovrabbondo di gioia in mezzo alle tribolazioni.
La croce, allora, non è più solo scandalo?
No. La croce non è una maledizione, ma una benedizione. Prima di Gesù la croce era il segno dei peggiori delinquenti: maledetto chi pende dal legno, dice la Scrittura. Ma quando l’Innocente si offre liberamente, quella croce diventa espressione di amore. Non perché sia bello soffrire, ma perché davanti a quel Crocifisso ci sentiamo abitati da un amore più grande, che rende sopportabile anche l’esperienza del dolore.
Lei parla spesso di ciò che impara dai malati…
Io faccio Unitalsi dal 1981, i treni bianchi, i pellegrinaggi dei malati. Le cose più belle le ho imparate proprio dai miei fratelli sofferenti: bambini, adulti, anziani. In certe situazioni mi hanno testimoniato una gioia che non si può fingere. Qui il Natale lo sentiamo ancora di più, perché qui è evidente che c’è bisogno di un Salvatore.
Quando si sta bene, forse, questo bisogno si dimentica.
Esatto. Quando stai bene pensi di non aver bisogno di nulla. Qui, invece, i bambini ci ricordano che Dio si fa bambino debole. E allora curare diventa dare un senso al dolore, ma anche cercarlo insieme, quando ci si sente più fragili.
Che cosa significa “curare”, in questo contesto?
Curare è dare una presenza. È dire: io sono qui per te.
I medici fanno una vera e propria dichiarazione di guerra al dolore e alla malattia,
mettendo in campo la scienza come dono di Dio. Rendono la vita, anche quando è segnata dalla sofferenza, più vivibile. E insieme alle cure portano l’amore. Come diceva Padre Pio: al letto del malato non si portano solo medicine, ma anche il cuore.
In questi giorni di festa, che cosa ascolta di più dai genitori?
L’altro giorno ero in reparto di “Epatogastro”. Una mamma con una bambina di poco più di un anno, con un problema serio, mi ha detto una cosa che mi ha colpito profondamente: ringrazio Dio perché vivo in una parte del mondo dove posso prendere la macchina e portare mia figlia qui. In altri Paesi questo non sarebbe possibile. Sentirlo dire da una madre così provata ti spiazza. È una gratitudine che nasce nel dolore.
(Foto N. De Santis)
Come sta ‘entrando’ il Natale nelle corsie del Bambino Gesù?
Si respirano luci, colori. Volontari che incontrano i bambini, laboratori, concerti, Babbi Natale che si calano dall’alto. C’è un presepe bellissimo, realizzato dai bambini: uno spaccato di edificio, con al centro la Natività e attorno le stanze dell’ospedale, la mamma che legge, il gioco, la cappella. Come a dire che proprio nel cuore di questo luogo nasce Gesù.
Un’immagine che vale come augurio.
Sì. Possiamo davvero farci gli auguri così: riconoscendo che anche qui, e forse qui più che altrove, nasce il Salvatore.

