Venezuela, tra minaccia militare e spiragli diplomatici. Lombardi (storico): “Gli Usa cercano una soluzione negoziata. La Chiesa può avere un ruolo decisivo”

Scritto il 22/11/2025
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Dopo una settimana segnata dall’esibizione muscolare degli Stati Uniti, con il dispiegamento della portaerei Ford, si è aperto uno spiraglio per il dialogo con il Venezuela. Il presidente Donald Trump si è detto disposto a parlare con Nicolás Maduro, anche se tutte, o quasi, le opzioni restano in campo. Ne è consapevole Ángel Lombardi, storico e analista di Maracaibo, già rettore dell’Università del Zulia e dell’Università cattolica Cecilio Acosta. Il Sir lo ha intervistato.

Professore, c’è ancora spazio per il dialogo tra Usa e Venezuela?
Nella politica, preferisco parlare di negoziazione, non di dialogo, perché il dialogo implicherebbe riconoscimento reciproco. La negoziazione è invece qualcosa di pragmatico, necessaria anche nei conflitti armati. Sono quasi certo che ci siano già contatti informali tra i due governi, anche attraverso gruppi di supporto.

E se si arrivasse a un’uscita forzata di Maduro?
Escludo un’invasione via terra: non bastano 10.000 o 20.000 marine. Servirebbero almeno 250.000 soldati, come accaduto in Ucraina. Più probabile un’azione militare mirata, come in Medio Oriente. Ma penso che la mobilitazione militare statunitense non sia solo propaganda: la lotta al narcotraffico è un pretesto. Gli Usa vogliono riprendere il controllo del continente, a partire dai Caraibi. Tuttavia, non credo si faranno trascinare nello scenario peggiore.

Quale strategia seguono gli Usa oggi?
Stanno cercando di chiudere i conflitti regionali per concentrarsi sull’Indo-Pacifico e sulla Cina, il loro vero interesse strategico. Non penso vogliano un nuovo Vietnam o Afghanistan vicino al loro territorio. Non è in linea con le risorse oggi mobilitate.

C’è rischio di una guerriglia interna?
La possibilità di una destabilizzazione interna in Venezuela non è da escludere. Alla frontiera con la Colombia c’è già da tempo una presenza fluida di Farc, dissidenze, Eln e narcotrafficanti.

Un accordo negoziato sarebbe utile anche per Trump?
Certamente. Come scrive Sun Tzu, la migliore battaglia è quella che si vince senza combattere. Per il Venezuela, una negoziazione è fondamentale: serve stabilità politica e attenzione ai problemi economici e sociali. Un accordo eviterebbe traumi e potrebbe favorire una transizione.

Quali condizioni per un’intesa?
Gli Stati Uniti vogliono più influenza nei Caraibi e in Venezuela, anche per motivi energetici. Il Venezuela vuole difendere la sua sovranità ed evitare un confronto impari. Il buon senso dovrebbe portare a una soluzione transizionale, come in Brasile o in Cile.

Perché questa volta il dialogo potrebbe funzionare?
In Venezuela la parola “dialogo” è screditata, ma recentemente una figura vicina a María Corina Machado ha aperto alla possibilità di negoziare. È un segnale importante.

Che ruolo potrebbe avere la Chiesa?
La Chiesa cattolica ha grande influenza in Venezuela. La Conferenza episcopale, in coordinamento con la Segreteria di Stato vaticana, può avere un ruolo decisivo. Il card. Parolin è stato nunzio a Caracas, il suo aggiunto Edgar Peña è venezuelano, e il card. Baltazar Porras è una figura di dialogo.

È ottimista?
Cerco di essere realista. Credo nella pace e nella convivenza. Il Venezuela ha vissuto tre decenni difficili. Molti dicono: non si può negoziare con chi ha commesso crimini. Ma la responsabilità penale è personale, non collettiva. Servirebbe un processo di pace come quello colombiano, con meccanismi di giustizia e non di vendetta. Se un regime accetta un’uscita negoziata, deve essere prevista anche una forma di clemenza, per favorire una transizione pacifica.

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