Gioco d’azzardo. Pellerano: “Parlare di ludopatia è sbagliato e fuorviante”

Scritto il 16/12/2025
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Le parole hanno un peso. Soprattutto quando riguardano fenomeni come il disturbo da gioco d’azzardo, troppo superficialmente sostituito da ludopatia. Ce lo spiega bene Fabio Pellerano, educatore professionale, esperto nel trattamento del disturbo da gioco d’azzardo e saggista.

(Foto Silvia Granero)

È corretto parlare di ludopatia?

Alcune volte mi capita di incontrare giocatori che si definiscono ludopatici gravi, usando un termine che mi provoca sempre una reazione di fastidio che non lascio trapelare al mio interlocutore, almeno spero. La persona evidentemente si è documentata, magari sulla rete, sui giornali o in televisione, cercando giustamente di scoprire di che cosa soffra e dando un nome alla sua malattia, ma quel termine è sbagliato e fuorviante. In questi casi

occorre usare termini come disturbo da gioco d’azzardo, azzardopatia oppure il superato gioco d’azzardo patologico.

Purtroppo ad usare il termine ambiguo sono politici, giornalisti, amministratori locali e, a volte, anche gli operatori sanitari.

Come nasce il termine ludopatia?

Per la Treccani si tratta di un neologismo del 2012, che significa “dipendenza patologica dai giochi elettronici o d’azzardo”. È vero che la lingua italiana è meravigliosa e ogni anno fioccano nuove parole, ma il problema principale di questo neologismo è che mette l’accento su un comportamento, il gioco, che da sempre è un importante strumento educativo, socializzante, sfidante, divertente e rilassante per ogni fascia di età. Per fondamentali scopi distrattivi, gli inventori di questa nuova parola hanno tentato, con successo, di spostare l’attenzione dal vero problema: l’azzardo. Il gioco d’azzardo – e purtroppo la lingua italiana in questo caso non offre alternative come quella inglese – non è un gioco come gli scacchi, i giochi da tavolo o il gioco del calcio e non ha niente a che vedere con l’allenamento, la fatica o lo studio. A parte il poker giocato dal vivo con altre persone, la stragrande maggioranza dei giochi d’azzardo prevede una lotta impari contro il banco, che ha almeno tre fattori a suo favore: le probabilità, il tempo e di solito importanti capitali.

Ed è corretto chiamare coloro che soffrono di questo disturbo giocatori o anche questo è fuorviante?

In effetti, le persone non giocano, azzardano. Sarebbe anche interessante, perciò, non chiamarli più giocatori, ma azzardatori,

per non confonderli per esempio con i giocatori del calcio o di altre competizioni sportive, ma questo è un altro discorso. La stessa Accademia della Crusca conclude la sua riflessione sul termine fuorviante scrivendo che “sembra quindi corretto segnalare le preoccupazioni di chi, occupandosi di questi problemi da clinico o specialista, percepisce l’uso di ludopatia, in luogo del tecnicismo appropriato, come ambiguo e potenzialmente fuorviante”.

Le altre lingue hanno trovato soluzioni diverse per spiegare il fenomeno?

A livello internazionale, con l’inglese che imperversa, ha iniziato a circolare al posto di gambling disorder, disturbo da gioco d’azzardo, il termine harmful gambling che per ora non ha trovato una traduzione efficace, se non gioco d’azzardo disfunzionale, che però fa pensare che esista un gioco d’azzardo funzionale, per cui a me non piace molto. Il nuovo termine però è interessante perché collega il gioco d’azzardo ai danni che crea nei giocatori, nei familiari, amici e conoscenti, e che si manifestano anche sotto soglia, cioè assai prima che il giocatore d’azzardo abbia raggiunto tutti quei criteri che lo includono a pieno titolo in una patologia diagnosticabile. In realtà i danni sono anche culturali, oltre che materiali, ma in questi anni bui purtroppo l’aspetto culturale è l’ultimo dei problemi.

Come far comprendere l’importanza della giusta terminologia?

“La lingua è potere; la decisione rispetto a quali debbano essere la corretta conoscenza e competenza linguistica di un popolo non può essere lasciata alle sole classi dominanti, che chiaramente tenderanno alla conservazione dello status quo. In alternativa, possiamo tutti, indistintamente, rimboccarci le maniche e riprendere coscienza di quanto sia importante il saldo possesso degli strumenti linguistici, che ci rende cittadini a nostra volta più potenti”, scrive così Vera Gheno nel suo saggio dal titolo “Potere alle parole. Perché usarle meglio”. Ogni volta che ne pronunciamo una, di parola, evochiamo un sistema di significato che inevitabilmente plasma il nostro pensiero e il nostro rapporto con il mondo e gli altri. Se non definiamo la realtà, quando mai potremmo porre un limite all’azzardo e ai suoi danni?

Come si può facilitare secondo lei l’uso dei termini corretti a tutti i livelli, dato che, come ha spiegato, torna utile in certi ambienti usare parole solo apparentemente sinonimi ma che confondono le idee?

I mezzi di informazione, quelli del Novecento e quelli digitali, hanno un ruolo molto importante, ma anche i singoli cittadini possono svolgere un ruolo divulgativo e “sottolineare” quando le parole vengono usate in maniera non opportuna. Mi immagino che, se ad ogni post che usa il termine ludopatia qualcuno si prendesse la briga si commentare che sarebbe un sostantivo da non usare, prima o poi sarebbe sostituito da quello corretto. Si tratterebbe quindi di una piccola rivoluzione che può passare dall’alto, come dal basso. Nel famoso Decreto Dignità del 2018, l’articolo 9 comma 1-bis recita che nelle leggi e negli altri atti normativi nonché negli atti e nelle comunicazioni comunque effettuate su qualunque mezzo, i disturbi correlati a giochi o scommesse con vincite di denaro sono definiti “disturbi da gioco d’azzardo (Dga)”. Sono passati ormai parecchi anni e il concetto fa molta fatica a stabilizzarsi e al di là del Decreto, occorrerebbe che ognuno usasse il senso di responsabilità nell’usare la parola più adeguata per definire un fenomeno dal feroce impatto individuale e sulle comunità.

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