Perù. Mons. Estrada Herrera (Celam): “Una Chiesa che ascolta, accompagna e costruisce speranza”

Scritto il 05/07/2025
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Mons. Lizardo Estrada Herrera, vescovo ausiliare di Cuzco e segretario generale del Consiglio episcopale latinoamericano e caraibico (Celam), racconta come la Chiesa peruviana e latinoamericana affronta le sfide della povertà, della violenza e della migrazione. Con uno sguardo fiducioso, invita i fedeli a non perdere la speranza e a essere costruttori di pace e giustizia.

Eccellenza, come stanno rispondendo le Chiese del Celam alle grandi sfide sociali della regione?
Il Celam lavora in stretta comunione con le 22 Conferenze episcopali del continente. Stiamo sostenendo risposte condivise grazie a reti ecclesiali che si sono consolidate negli ultimi anni. Cito la Rete Clamor per i migranti, rifugiati e vittime di tratta; la Rete per i Diritti Umani e la Democrazia, impegnata contro la violenza; la Rete di economia solidale e l’Economia di Francesco, che si dedicano alla lotta contro la povertà e alla promozione del lavoro dignitoso. Non va dimenticata la rete delle Caritas, sempre in prima linea nelle emergenze e nell’aiuto umanitario. Tutto questo permette alla Chiesa di avere un ruolo attivo nella promozione di politiche pubbliche giuste e nell’animazione della solidarietà dei cittadini. Inoltre, stiamo lavorando a una maggiore formazione dei laici e dei religiosi perché queste reti non siano solo strutture organizzative, ma veri strumenti di comunione e missione.

Guardando al Perù, quali esperienze vorrebbe evidenziare?
Il Perù ha una tradizione di impegno solidale che parte proprio dalla fede. Caritas del Perú, ad esempio, porta avanti da anni interventi nelle zone più povere della costa, della sierra e dell’Amazzonia, promuovendo progetti produttivi che rafforzano l’autogestione e la dignità delle persone. Ogni anno la Campaña Compartir mobilita risorse e coscienze, come abbiamo visto nel terremoto del 2009 e in tutte le altre emergenze legate alla povertà estrema. Anche nel campo del lavoro e dell’economia, la Chiesa ha promosso reti cooperative e iniziative solidali che continuano a generare speranza in molte famiglie che altrimenti resterebbero escluse. Nella sanità, la pastorale della salute (Depasa) lavora per sensibilizzare e incidere su temi come la tubercolosi e la salute integrale, collaborando per ottenere politiche pubbliche migliori. In campo educativo, la rete delle scuole gestite in convenzione con lo Stato e coordinate dall’Ondec e dalle Odec è un esempio di collaborazione per formare non solo studenti ma anche educatori e comunità. Vorrei aggiungere che stiamo cercando di rafforzare la presenza della Chiesa nei villaggi più remoti, dove l’accesso ai servizi fondamentali è ancora oggi una sfida quotidiana.

Come riesce la Chiesa a farsi strumento di pace in un contesto sociale così complesso come quello peruviano?
Attraverso la mediazione, il dialogo e la difesa della giustizia. Penso al ruolo che abbiamo avuto durante il conflitto socio-ambientale, il “Baguazo” del 2009, al fianco dei popoli awajún e wampis, e nei conflitti minerari di Conga e Las Bambas. La Chiesa cerca sempre di favorire un confronto giusto, che tenga conto dei diritti delle comunità e del rispetto della Creazione. Oggi stiamo portando avanti un progetto specifico di trasformazione dei conflitti e costruzione di pace, promosso dalla Conferenza Episcopale, per offrire spazi di dialogo vero tra le diverse parti sociali, soprattutto in questo momento di crisi politica e di divisioni. È fondamentale che la Chiesa continui ad accompagnare i processi di riconciliazione, non solo come mediatrice, ma come madre che sa accogliere le ferite della società e trasformarle in percorsi di speranza.

Come può il popolo cristiano mantenere viva la speranza?
Con la fede e l’impegno concreto. Papa Francesco ci invita a non farci rubare la speranza. Il Perù è più grande dei suoi problemi e ogni cristiano deve sentirsi chiamato a essere un artigiano della pace, una pace che non sia silenzio complice o semplice assenza di conflitti, ma frutto della giustizia, del rispetto e della cura della nostra Casa Comune. Dobbiamo recuperare quella spiritualità della solidarietà che ci spinge a prenderci cura degli altri, soprattutto dei più deboli, e a non rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza altrui. La speranza cristiana non è ingenua, ma radicata nella certezza che il Signore cammina con noi.

Lei ha conosciuto personalmente Papa Leone XIV. Che persona ha incontrato?
Sì, l’ho conosciuto quando era padre Robert Prevost, formatore degli agostiniani a Trujillo. Era mio insegnante di diritto canonico e spiritualità agostiniana. Quello che più colpiva era la sua capacità di ascoltare senza fretta, con calma e profondità. Sapeva correggere con carità e discrezione, trasmettendo sempre serenità e fiducia. E non dimentico la sua attenzione ai più giovani: sapeva incoraggiarci nei momenti difficili e ci spingeva a vedere la vita religiosa come un dono e una missione.

Qual è secondo lei il contributo specifico dell’America Latina al pontificato di Papa Francesco? E quali sono le speranze per Papa Leone XIV?
Il contributo dell’America Latina è grande: il magistero del Papa Francesco nasce dall’esperienza della nostra Chiesa che cammina accanto ai poveri, che sceglie la sinodalità, che affronta i grandi cambiamenti d’epoca con coraggio. Lo vediamo in Evangelii Gaudium, Laudato si’, Fratelli tutti, ispirati anche da Aparecida. Per Papa Leone XIV nutriamo grandi speranze. La scelta del nome dice molto: come Leone XIII fu il Papa della Rerum Novarum, così oggi il nuovo Papa vuole affrontare le sfide dell’epoca digitale, dell’intelligenza artificiale, della giustizia sociale globale. Siamo certi che continuerà il cammino tracciato da Francesco, nel segno della cura della Casa Comune e della fraternità universale. Ci auguriamo che il nuovo Pontificato rafforzi i legami tra le Chiese locali e valorizzi ancora di più le ricchezze e le esperienze delle comunità più periferiche.

Guardando avanti, quali sono i principali orizzonti di lavoro per il Celam?
I grandi temi restano quelli che ci pongono i poveri, i migranti, i giovani, le donne, le comunità ferite dai conflitti sociali e ambientali. Stiamo lavorando al rafforzamento delle reti ecclesiali, alla formazione degli agenti pastorali tramite il Cebitepal (Centro de formación bíblica, teológica y pastoral), al potenziamento della comunicazione per la missione e l’incidenza sociale. Vogliamo essere sempre più una scuola di sinodalità e di ascolto, al servizio del Popolo di Dio e dei più fragili. E ci impegniamo a sviluppare un dialogo sempre più fecondo con le altre conferenze episcopali del mondo per arricchire il nostro cammino comune.

Quanto conta l’ascolto nel cammino della Chiesa?
L’ascolto è decisivo. Senza ascolto non c’è sinodalità, non c’è vera comunione. Nei percorsi sinodali e nelle Assemblee ecclesiali abbiamo sperimentato la ricchezza di questo metodo: ascoltare lo Spirito Santo che parla attraverso il Popolo di Dio. Dobbiamo proseguire su questa strada per una Chiesa che sappia davvero accompagnare, servire e trasformare la realtà alla luce del Vangelo. L’ascolto, del resto, è anche la via per rispondere alle sfide nuove: solo ascoltando possiamo discernere i segni dei tempi e offrire risposte adeguate alle necessità di oggi.

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