Quando la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata uccisa nel maggio 2022 a Jenin, in Cisgiordania, durante un raid israeliano, indossava un casco e un giubbotto con la scritta “Press” ben visibile. Era disarmata ed è stata colpita con una precisione che non lascia spazio al dubbio.
Lo ha ricordato Mona Abuamara, ambasciatrice della Palestina in Italia, intervenuta al 10° Forum delle Giornaliste del Mediterraneo, all’Università di Bari, dal titolo “Disarmate. Disarmanti. Donne non violente in lotta”, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Lo ha fatto, di fronte a tanti giovani e studenti universitari, vestita di bianco, come vuole la tradizione palestinese “quando c’è qualcosa da festeggiare. Non vi parlerò delle donne palestinesi come vittime. – ha esordito – Viviamo senza armi, ma affrontiamo il potere con qualcosa di molto più sovversivo: la nostra testimonianza, il coraggio.”
Shireen, volto noto di Al Jazeera, non è stata l’unica a morire svolgendo il suo lavoro con onestà. Chi non viene ucciso, spesso “finisce nell’inferno di interrogatori, stupri, minacce e torture sessualizzate”. E chi riesce a scampare a questo destino, come la giovane giornalista Aya Ashour, oggi studentessa in Italia, porta con sé un doloroso senso di colpa per essere sopravvissuta.
“Essere una giornalista palestinese oggi – ha proseguito l’ambasciatrice – significa vivere sulla linea sottile tra vita e testimonianza, dolore, lutto e responsabilità. Le giornaliste sono disarmate, ma disarmanti per coloro che le temono. Sono non protette, eppure proteggono la verità per tutti noi. Sono minacciate, eppure continuano a parlare perché il silenzio è l’unica vera morte. Sono autrici della nostra memoria collettiva, la prima linea della dignità umana”.
Sono donne, ha precisato, ancora, al Sir “e in quanto tali si preoccupano di assicurare un futuro sicuro e stabile ai loro figli, e, naturalmente, di costruirlo in uno stato sovrano, libero e privo di tutte le atrocità che abbiamo visto in Palestina”.
Negli ultimi mesi molte ragazze e ragazzi palestinesi sono stati accolti dalle università italiane. “Siamo profondamente grate per questa opportunità – ha spiegato – perché i nostri figli sono brillanti e portano al mondo creatività e positività. Mostrano cosa significhi essere palestinesi oltre la ‘nebbia’ e la propaganda con cui il nostro oppressore tenta di descriverci. Siamo felici per questi ragazzi, a cui per anni è stato impedito di inseguire i propri sogni, e per le cose inattese, grandi e straordinarie che potranno realizzare qui.”
“Il vostro sostegno ci aiuta a ridurre la paura,” ha aggiunto Jumana Shahin, giornalista e videomaker, nei cui occhi scorrono ancora immagini impossibili da dimenticare. Piange mentre racconta i traumi dei bambini – compresa sua figlia – che hanno vissuto separazioni, perdite e un’angoscia difficile da elaborare.
“Ho parlato con chi vive nelle tende, con chi affolla le sale d’attesa degli ospedali, con i bambini costretti a lasciare la loro scuola. Si muore di fame, e non è un concetto astratto. Intere famiglie impiegano settimane per riuscire ad avere un pezzo di pane o un farmaco. La realtà è molto più atroce di quanto possa sembrare.”
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